Detestande feritatis

La cura dei morti mi ispira da sempre ritenendola illuminante delle culture a cui appartiene.

Mi ritrovo talvolta a ciondolare nei cimiteri con fascinazione uguale sia che si tratti di angoli di campagna o di sedi monumentali, che siano ancora frequentati oppure dismessi da tempo indefinibile. Mi càpita di calcolare l’età del defunto, di osservare statue o mausolei, ma anche lapidi quasi illeggibili o foto consunte nel loro ovale. Come se il tempo si fosse fermato a metà fotocopia.

Di quei sepolcri qualcuno ha coltivato la cura e l’ha fatto per lungo tempo. Poi l’oblio è entrato in scena.

Sono passeggiate lente che mi donano quieti spazi per una introspezione che rovista fra memorie che non ricordavo nemmeno più di avere raccolto, fruga fra letture disordinate che scompostamente riaffiorano e che non riguardano solo la morte. Ma anche.

Quanto abbiamo tenuto alla sepoltura con i suoi riti per secoli, tanto spesso da adottare pratiche truculente e un pochino esibizioniste come l’imbalsamazione, la mummificazione dei nostri cari!

Oggi i corpi non si decompongono più” mi confidava sconsolato un medico legale. “Casse di zinco e tutto il resto ci restituiscono cadaveri praticamente integri dopo 30 anni.”

Un caro amico quel medico che incrociavo spesso, stanco e annoiato, reduce da estumulazioni cui la professione lo obbligava a presenziare. E mi ha insegnato molto. Piena d’aneddotica la nostra frequentazione tanto reciproca da non ricordare nemmeno più chi era il narratore. Costruita su richiami, chiose, gemmazioni, divagazioni cervellotiche.

Ero io o lui che ricordava la bolla di Bonifacio VIII, Detestande feritatis? La barbarie da detestare. Il Papa Caetani nel 1299 ce l’aveva – per una volta – non con gli avversari politici, ma con una riprovevole usanza invalsa in varie località della cristianità che quindi condannava.

In realtà quella era una soluzione pratica quanto brutale per contrastare la putrefazione, un procedimento che aveva preso piede in particolare durante le Crociate negli ultimi due secoli. In guerra, si sa, capita di morire, in battaglia o, non meno di frequente, per malattia: colera, tifo… . I poveracci venivano sepolti sul posto previo buco nel terreno, ma i nobili, i signori, no. No: dovevano trovare degna sepoltura, da eroi, nelle terre avite.

Il viaggio durava mesi s mesi con la decomposizione galoppante. Che fare allora?

I corpi – orrore! – venivano bolliti fino a che le carni si staccavano dalle ossa (carnibus per excotionem consuntibus). Il bollito veniva sepolto sul posto con una mesta cerimonia, mentre le ossa finivano lestamente in cassa e rispedite à la maison assieme alle interiora chiuse invece in vasi canopi.

È la sorte che toccò al povero Luigi IX, Luigi dei francesi, il Re Santo insomma.

Morì di dissenteria bevendo acqua lurida a Tunisi durante l’ottava crociata, giusto un paio di decenni prima della bolla papale del Caetani. Il corpo raggiunse la Sicilia e fu sepolto, ma essendo già in odore di santità i francesi ne vantavano le spoglie. Venne allora disseppellito e bollito. Viscere e resti molli trovarono pace eterna a Monreale, mentre le ossa presero la strada della Francia.

E lì riposò a lungo finché la tomba non venne distrutta. Ma questa è un’altra storia.

Scuotendo le scarpe per togliere il ghiaino dalle suole, chiudo il cancello dietro di me e riporto il cervello in stand by. (Carlo Giacobini)