Dica trentadue

Fate un debole sforzo. Immaginatevi degenti in un reparto di cardiologia e che sopravvenga un importuno eritema. Come reagireste se il primario sentenziasse “Spiace, noi qua curiamo l’apparato cardiocircolatorio. Questo è un problema dermatologico.”?
Immaginate ora di essere sottoposti ad una TAC alla ricerca di infidi calcoli renali; non li si trova ma in compenso si rileva qualcos’altro di annidato in un anfratto imprevisto, ma non lo si referta giacché si stava indagando tutt’altro.
Ancora uno sforzo, più impegnativo: immaginate di recarvi da un medico specialista e costui vi neghi qualsiasi diagnosi, atto che poi sarebbe alla base della prognosi e di congruenti terapie. Oppure, senza elaborare alcuna ipotesi in scienza e coscienza, vi prescriva qualche farmaco, così, per provare qualcosa e per farvi stare tranquilli.

Mentre dèvio la riflessione, vi lascio ruminare su questi paradossi, immaginando il vostro comprensibile sussulto.

Con quale frequenza si presenta un problema di salute mentale fra le persone con disabilità intellettiva? Ci sono, in verità, parecchi studi epidemiologici sulla incidenza dei disturbi di tipo psichiatrico nelle persone adulte con disabilità intellettiva. I dati che emergono sono fra loro molto divergenti ma convergono su un punto: i disturbi psichiatrici sono 4 volte più frequenti negli adulti con disabilità intellettiva che nel resto di popolazione. Fra costoro, pur assumendo le ipotesi più prudenziali, un numero comunque elevato (il 25%) ha almeno un disturbo psichiatrico. .

Questo lo scenario, nudo e crudo.

Negli anni nell’immaginario popolare è placidamente circolato lo sbrigativo luogo comune secondo cui i disturbi psichiatrici sono parte inscindibile della disabilità intellettiva (e figuriamoci di quella relazionale) o, ancora più terra terra, sarebbero tratti del carattere, tanto da coniare l’improbabile quanto risolutivo adagio “quello là è anche caratteriale”.
Se all’opinione pubblica si può, obtorto collo, perdonare lo stratificarsi di un semplicismo tutt’altro che innocuo, la stessa clemenza rimane inapplicabile nei confronti dei professionisti, dei servizi, delle politiche.

Oggi, in Italia, complice anche la miserabile considerazione in cui vengono mantenuti i servizi di salute mentale, è sempre più pesante una realtà sottaciuta spesso anche da chi dovrebbe invece alzare la voce o aggiornarsi: le persone con disabilità intellettiva (e ancor più relazionale) incontrano ostacoli insormontabili per ottenere una diagnosi, e ancor più spesso neanche una sommaria valutazione, di disturbo psichiatrico. Violando alla base l’incomprimibile diritto alla salute.

Le motivazioni (scuse) accampate sono le più diverse e infondate: “è competenza dell’area disabilità adulta, non della salute mentale”; “mancano criteri diagnostici appropriati ”; “i sintomi sono atipici ma possiamo provare qualche principio attivo”; “è parte della malattia (sic!) intellettiva”

Gli effetti di questo poliedrico rigetto sono devastanti.
Si pensi solo alle abborracciate terapie farmacologiche che hanno più la funzione di ripiego che di supporto. Ma ancora peggio: vengono meno elementi essenziali per gestire correttamente un disturbo di cui non abbiamo diagnosi e da questa ignoranza derivano errori, fraintendimenti, interpretazione di messaggi e segnali che hanno tutt’altro significato. Questa approssimazione diviene esplosiva quando quella persona vive o frequenta una comunità, qualsiasi essa sia e comunque la si denomini. È anche per questa ragione che, in taluni disgraziati e non infrequenti contesti, prevalgono poi la sedazione forzata e la contenzione, specialmente quando la famiglia non è presente o è troppo timorosa per sollevare obiezioni. Sospingendo le persone ad un isolamento senza tempo.

E nonostante qualche coraggioso specialista abbia sollevato la questione rimanendo largamente inascoltato, il più solido e immarcescibile alleato di questa violazione del diritto e della dignità di tante persone rimane uno: l’accomodante e reverenziale silenzio.