Il 13 gennaio 1915 un sisma del nono grado della scala Mercalli rase al suolo la cittadina abruzzese di Avezzano. 300 sopravvissuti su 11.000 abitanti. Erano passati sette anni dal più catastrofico terremoto dei tempi moderni che, nel 1908, si era scatenato assieme ad un maremoto su Reggio Calabria e Messina: 130.000 morti. Ma la memoria più recente e viva va al Friuli, alla Valnerina, all’Irpinia.
La nostra storia è punteggiata da questi eventi infausti che, come i fatti recenti d’Abruzzo, ci ricordano inclementi che la quasi totalità del nostro Paese è zona sismica.
Prevenzione reale, capacità di gestire l’emergenza, solidarietà organizzata, sono i rimedi che possono rendere meno sconvolgenti fenomeni, a quanto pare, inevitabili.
È chiaro che, sulle macerie calde e con le persone ancora stipate nelle fredde tendopoli, non ci si può perdere in capziose elucubrazioni. L’emergenza va gestita, contenuta, abbreviata. Non va certo dilatata, come già accaduto in un recente passato, a vantaggio di alcuni.
È chiaro che ciò che rallenta la ricostruzione, che ritarda il ritorno alla normalità, non può che apparire fastidioso e inaccettabile. Purtuttavia dal dolore, dalle esperienze precedenti, dalla conoscenza dei bisogni più immediati non può – per noi almeno – che derivare qualche riflessione preoccupata.
Non è mai solo un terremoto strutturale, ma anche emozionale che mette ancora più a nudo le fragilità e le marginalità preesistenti.
È vero: tutta la popolazione, indistintamente, ne è colpita. Ma le persone sole, anziane, disabili, perdono all’istante quelle protezioni, magari minime, che fino a ieri rendevano sopportabili i disagi quotidiani. È un’emergenza nell’emergenza. Un’emergenza che non si risolve spostando definitivamente altrove le persone più deboli, le case di riposo, le comunità, eradicandole dal loro contesto, dalla loro realtà.
Le attenzioni devono essere vive nei loro confronti tanto quanto quelle per i nuovi quartieri da erigere con celere efficacia, o per il restauro dei beni culturali. Un’attenzione che non si estingue con la consolatoria carezza pontificia o con un rincuorante sorriso presidenziale, o con pietose visite istituzionali fra le macerie.
Lo Stato dovrà essere vicino a queste popolazioni non solo nel rimuovere le macerie o nel costruire nuove case e uffici, ma anche pianificando interventi di sostegno assistenziale aggiuntivo alle persone con disabilità e agli anziani soli. Interventi che consentano loro di rimanere nella propria collettività senza sentirsi un peso o, loro stessi, macerie da rimuovere.
C’è anche qualcos’altro che questa sciagura ci ha insegnato. Secondo voci insistenti, che la Magistratura sta accertando, sarebbero mancati i controlli sull’esecuzione di molte opere edili.
Edifici costruiti in spregio alle norme antisismiche. Magari gli atti giudiziari dimostreranno che gli edifici crollati erano realizzati a regola d’arte, ma l’evidenza, anche in questo caso, è sotto gli occhi di tutti.
Le norme esistono, ma i controlli sono fiacchi, episodici, opzionali, a campione e – anche in forza di una ipocrita semplificazione amministrativa – si accettano, con grande superficialità, autocertificazioni ed asseverazioni su tutto: antincendio, norme antisismiche e barriere architettoniche.
Forse, visto che si tratta della nostra sicurezza e della nostra qualità di vita, è ora di ripensare anche queste regole che non sono solo di una civiltà che crediamo di meritare, ma, troppo spesso, di sopravvivenza. (Carlo Giacobini)