Dal bisogno al diritto, dal diritto al privilegio

Abbiamo letto con attenzione e crescente preoccupazione i risultati del monitoraggio che il Ministero per la funzione pubblica e l’innovazione ha effettuato sulla fruizione delle agevolazioni lavorative riservate ai familiari di persone con handicap grave.

I dati, che sono relativi alla sola Pubblica Amministrazione, sono – a dir poco – sorprendenti. Per quanto si avesse sentore di una larga fruizione di permessi e congedi, l’entità del fenomeno non può che indurre a riflessione e ripensamenti.

Nel 2009 si stima che vengano superati i 5,5 milioni di giornate di permesso, con un aumento del 20% sull’anno precedente.

Il numero dei dipendenti pubblici che usufruisce dei permessi è stimato, nel 2008, sopra i 300.000 e il maggior numero dei fruitori risulta concentrato nel comparto Scuola. Circa il 9% dei dipendenti pubblici fruisce, quindi, di quei permessi, mentre solo l’1,5% dei dipendenti privati ne fa ricorso.

I soli 5,5 milioni di giorni di permessi retribuiti costano allo stato circa 600 milioni di euro l’anno. Sommando gli altri benefici (ad esempio i congedi annuali) il costo stimato è di circa un miliardo l’anno. Per il solo comparto pubblico.

Per dare un ordine di grandezza: un miliardo di euro è anche l’intero importo del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali i cui due terzi se vanno a coprire la spesa dei permessi lavorativi per il comparto privato.

Un miliardo di euro rappresenta due volte e mezza la cifra destinata nel 2009 per il Fondo per la non autosufficienza, soppresso da questo Governo per mancanza di liquidità.

Ma il Ministero per la Funzione Pubblica, avanza anche delle inquietanti previsioni a cui non abbiamo difficoltà a credere. L’innalzamento dell’età media e la possibilità di fruire dei permessi anche per un parente anziano non convivente “spingono il fenomeno a una crescita progressiva che potrebbe arrivare a raddoppiare tale onere entro pochi anni, producendo effetti distorsivi sul funzionamento della Pubblica Amministrazione e successivamente anche nell’impresa privata, oltre beninteso che nell’uso di tali benefici. Infatti almeno il 50% dei dipendenti pubblici può potenzialmente avere un parente o affine entro il terzo grado con disabilità grave (ad esempio una suocera, una zia o la nonna della moglie)”. In alcune regioni o settori già oggi usufruiscono dei permessi il 18-20% dei dipendenti pubblici.

Dice Brunetta: “Con una razionalizzazione delle norme, con maggiori controlli sull’utilizzo e limitando qualche abuso, saremo in grado di ridurre di almeno un 30% tale onere liberando centinaia di milioni di euro l’anno per assistenza più finalizzata alle esigenze dei disabili stessi. Ad esempio con il solo obbligo di convivenza, si libererebbero immediatamente ben oltre 50 milioni di euro l’anno.”.

Insomma: c’è aria di restrizioni normative ed è un po’ arduo sostenere che non sia il caso. E lo è ancora di più per noi che quotidianamente abbiamo a che fare oltre che con richieste sacrosante, anche con situazioni che puzzano lontano un miglio di furberia.

Saremo forse impopolari, ma vogliamo ricordarlo che il beneficio previsto dall’articolo 33 della Legge 104/1992, è solo indirettamente rivolto ai lavoratori. I veri destinatari sono le persone con disabilità grave che possono contare su qualche ora in più di assistenza da parte dei loro familiari.

Sembra una precisazione banale, ma non lo è: ha un risvolto bene preciso.

I permessi lavorativi non sono una compensazione concessa al lavoratore per il semplice fatto di contare un disabile nel suo ambito parentale. Quello sarebbe – ed è – un privilegio.

Se è vero questo assunto, i giorni di permesso devono essere effettivamente destinati ad assistere il parente con disabilità grave, con una vicinanza fisica e concreta. Permessi usati per assisterlo in quanto persona per la quale si rende necessario “un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, poiché questa è la definizione di handicap grave prevista dalla stessa Legge 104/1992 e alla base dello stesso beneficio.

Ecco che sono poco “credibili” i permessi – e tutti gli altri benefici, compresi i maggiori punteggi nelle graduatorie – concessi per assistere un familiare che abita a 500 chilometri dal posto di lavoro.

Come pure – ecco di nuovo il rischio di essere impopolari – sono poco comprensibili i permessi concessi ad un genitore durante le ore di permanenza del figlio a scuola, se in quell’istituto sono garantiti sostegno, assistenza materiale e trasporto.

Come sono incomprensibili i permessi concessi per l’assistenza ad una persona con demenza senile che in realtà trascorre buona parte della giornata in un day hospital.

In questi anni abbiamo raccolto, più spesso delle difficoltà ad ottenere queste agevolazioni, molti abusi e storie davvero paradossali: dall’infermiere che gode di 12 giorni di permesso mensile per l’assistenza contemporanea a tutti e quattro i nonni, al genitore che ottiene i tre giorni di permesso per la figlia ricoverata in istituto ma che rientra a casa la domenica, dal lavoratore con handicap grave che oltre ai permessi per sé fruisce anche dei permessi per assistere la moglie e la madre pure con handicap grave, all’insegnante che ottiene punteggi maggiori in graduatoria perchè a 600 chilometri dal posto di lavoro, vive il padre disabile grave.

Gli eccessi e gli abusi sicuramente finiscono per trasformarsi in boomerang e non tanto perchè si corre il rischio di restringere i benefici oltre l’opportuno a scapito di chi ne ha strettamente necessità.

No: il danno subiamo tutti come Cittadini. Pensiamoci: se in una scuola ci sono 20 insegnanti su 100 che fruiscono, magari senza programmazione alcuna, dei permessi, quale sarà la qualità dell’insegnamento? Quale la continuità educativa? E se fossero proprio gli insegnanti di sostengo ad essere – più o meno legittimamente – assenti grazie alla Legge 104/1992.

Abbiamo sempre sostenuto che le persone con disabilità e i loro familiari non sono “portatori di bisogni”, come qualcuno vorrebbe. Quella è una logica e un modo di porsi compassionevole, caritatevole incardinato in una secolare propensione all’elemosina espiatoria di peccati terreni e ipoteca per un beato aldilà. Una logica che ha ben poco a che vedere con il diritto. Il diritto ad una vita dignitosa, il diritto alla sussistenza, il diritto allo studio, alla mobilità, all’autonomia personale, all’inclusione sociale. Abbiamo sempre sostenuto che le persone con disabilità hanno dei diritti inalienabili, incomprimibili, indiscutibili.

Ma i diritti sono qualcosa di molto diverso dai privilegi che non possiamo che rifiutare prima che divengano la nostra stessa gabbia. (Carlo Giacobini)