Una quieta serena omertà

Chissà se hanno memoria sufficiente coloro che invocavano l’improcrastinabile esigenza di videosorveglianza nelle strutture per anziani e per persone con disabilità. La tecnologia, nel loro icastico vagheggiare, avrebbe scongiurato gli abusi e le violenze che in quelle stanze, sfuggite da attenta vigilanza, talora si consumano per mano di – poche, bene inteso! –  mele marce.

Chissà se i fatti drammatici che in queste settimane si sono esponenzialmente moltiplicati nelle RSA, negli istituti, nelle strutture variamente denominate, hanno innescato qualche sana riflessione, qualche umile ripensamento e magari insinuato qualche crepa in quelle incrollabili certezze.

In un macabro esercizio distopico, giacché dopo tanto ciarlare di videocamere non v’è traccia, possiamo immaginare le riprese e come esse avrebbero raffigurato la solitudine e l’abbandono di quelle persone sulla cui morte la magistratura avrà un gran daffare pur senza vividi supporti iconografici, audio o video.

Quei fotogrammi – per qualche singolare reazione – li immaginiamo in bianco e nero, senza commento audio, in inquadrature soggettive, quasi un vecchio filmino amatoriale girato in una famiglia degli anni ’60.

E non sarebbero immagini di violenza esplicita, di abuso, di insulti. Scorgeremmo sagome umane accartocciate su giacigli malamente illuminati, operatori senza guanti nè maschere che vanno e vengono. Lenti, rassegnati ad ispezionare chi è vivo e chi è andato.

A quella ipotetica videocamera le colpe originali ancora una volta sfuggono, come non sono così palesi le ragioni profonde che prima ancora di questa tragedia sono state causa di isolamento, segregazione, umiliazione, annullamento umano. Effetti inevitabili quando si riducono donne e uomini in gabbia, quando si costringono ad una coabitazione forzata con quel ritornello ipnotico che tutto ciò sia per il loro bene.

In realtà in queste settimane in quelle residenze non solo non c’era l’occhio elettronico, ma si è spento anche quello umano, con la motivazione che parenti, amici, visitatori avrebbero rappresentato un inestinguibile rischio di contagio. E questo è stato l’ultimo tassello dell’isolamento: nessun esterno, in condizione di rilevare e segnalare velocemente quell’olocausto, si è più potuto avvicinare.

Dicemmo allora, ai tempi della crociata per la videosorveglianza massiva, che abusi e violenze sono il naturale esito di quei modelli di convivenza coatta, stili che non basta certo una videocamera a svellere, scalzare, cambiare. E questo si ripete nelle istituzioni antiche, nei moderni luoghi speciali, nelle finte situazioni comunitarie abbellite da un maquillage di cartongesso e nagari finanziate dalle norme più innovative.

Diciamo ora che la morte, sgusciata come ladro bastardo fra quei muri, non poteva trovare ambiente più favorevole: persone – troppo sovente troppe persone – costrette in innaturali assembramenti che consentono di risparmiare sulla vigilanza e dove la la privacy diventa un lusso inesigibile.

Non poteva che andare così: la dignità umana era già morta, ma non era l’ultima vittima, complice l’ipocrisia e il silenzio di chi sa, di chi non sa ma dovrebbe sapere, di chi non sa e non vuole sapere. Di chi, per un motivo o per l’altro, ha girato il capo dall’altra parte e, in tutta probabilità, continuerà a farlo in una quieta serena omertà.