Un anno formidabile

Che anno il 2003! Non c’è stata contrada d’Italia che non abbia organizzato qualche evento per celebrare l’Anno europeo del disabile. Convegni, dibattiti, congressi, mostre, fiere … con fondi limitati o con budget corposi. Insomma: non se ne può più! Questa aria celebrativa, pur con le migliori intenzioni, ha stancato anche noi del “settore”. Figuriamoci gli altri. Ma tant’è: è andata così ed ora si ricomincia con un anno di ordinaria esclusione.

Ho tentato in quest’anno, spesso approfittando di dimostrabili questioni personali, di scansare il più possibile uscite pubbliche, non per mancanza di rispetto verso chi garbatamente e sinceramente teneva alla mia presenza, quanto piuttosto per una malcelata diffidenza verso la sostanza (poca) della celebrazione. Ma, vuoi per favori che dovevo giustamente restituire, vuoi perché non sono riuscito a dire di no, a qualche appuntamento non ho proprio potuto esimermi.

È il caso del convegno cui ho partecipato sul finire di novembre, in una ridente cittadina padana. Diecimila anime, ma un assessore assai energico e deciso a non lasciarsi scappare il 2003 senza aver impresso anche la sua orma su questo enorme affresco di proporzioni, appunto, europee.

Arrivo di buon mattino. Il centro congressi prescelto si trova all’interno di un residence con albergo, piscina e tutti i comfort più alla moda. Lo striscione dieci per due campeggia all’esterno e promette un evento di notevole rilevanza.

D’altra parte il programma prevede una giornata di lavori con nomi altisonanti e con relazioni a tutto campo sulla disabilità. In una giornata dovrà essere enciclopedicamente esposto tutto lo scibile e tutto il futuribile sulla disabilità. Per il “presente” lo spazio è limitato. Non a caso quasi tutti i titoli delle relazioni iniziano con “Prospettive nel settore di …” … “Il futuro di …”.

Alla mia relazione (Prospettive della tecnologia e dei servizi nel settore dei trasporti in Italia, in Europa e nel mondo) sono riservati ben venti minuti, cinque in più degli altri relatori della mia sessione. Questo maggior rilievo è scompensato dal fatto che parlerò per ultimo.

Mi accolgono all’ingresso due hostess in abito rosso di ordinanza (austero) e mi invitano a registrarmi al congresso, ma prima che abbia il tempo di replicare accorre l’assessore che mi saluta calorosamente invitandomi ad accomodarmi in sala.

La sala è ultramoderna: poltrone in velluto fucsia, parquet in legno pregiato, proiettori e sistemi di amplificazione di prima qualità, cabina per gli interpreti. È disposta ad anfiteatro con le poltrone che digradano verso il palco dei relatori. Chiedo, un po’ imbarazzato, in quale posizione si sistemino le persone in carrozzina. “La sala è omologata per cinquanta posti-carrozzina.” E mi indica la “piccionaia”, capiente ma un po’ lontanuccia dal palco.

Nel frattempo abbiamo sforato già di un quarto d’ora sul tempo di inizio. A parte cinque dei dodici relatori previsti, in sala ci sono solo otto persone. L’assessore comincia ad agitarsi: “abbiamo recapitato, con i fondi dell’assessorato che ben si intenda, più di cinquemila inviti. Abbiamo previsto i traduttori per l’ospite straniero, e gli interpreti del linguaggio dei segni per i disabili non udenti”.

Comincia a entrare qualcuno e arrivano anche le prime persone disabili. Sono un paio di paraplegici, mi sembrano abbastanza scafati a situazioni del genere, che, dopo aver osservato sconsolati l’assetto della sala, si sistemano nella piccionaia usando il parapetto per appoggiarci i gomiti.

E finalmente viene superata quella fatidica soglia numerica che consente di poter affermare che un convegno è stato un successo: il numero dei partecipanti è superiore a quello dei relatori.

“Ancora qualche minuto e possiamo iniziare”. È il moderatore che parla. Anche in questo caso hanno fatto le cose in grande: è un giornalista professionista che lavora ad una TV locale, volto noto soprattutto alla domenica quando commenta i risultati della serie C.

Un’hostess avvisa l’assessore che è arrivato l’ospite straniero. È un signore di mezza età che, oltre che essere membro di associazione molto nota all’estero è stato componente di una commissione presso la Comunità europea. È in sedia a rotelle.

Il maggiore problema non è farlo scendere di peso lungo i gradoni dell’arena, né farlo risalire lungo i trenta scalini per accedere al palco. Il vero problema è l’interprete. Il nostro ospite, a dispetto del cognome tedesco, è un francese purosangue da due generazioni. Il panico attanaglia l’assessore che tenta di spiegare all’ospite, adottando un improbabile idioma fatto di infiniti e francese maccheronico, che c’è stato uno spiacevole equivoco e che si pensava che fosse tedesco e che l’interprete è per il tedesco e che anche lui è stato in Germania da giovane a vendere gelati. Fortunatamente sia interprete che ospite masticano un po’ di inglese e l’incidente diplomatico sembra (per ora) ricomporsi.

L’assessore si rimette la giacca sia per ridarsi un tono che per coprire gli aloni di sudore provocati dal recente panico: si vada a incominciare (un’ora e un quarto di ritardo). In sala le persone sono una cinquantina (sempre relatori inclusi).

Con piglio da DJ il giornalista introduce al tema del giorno. Introduzione rapida fatta di spot e slogan estrapolati da una pagina del sito del Ministero del Welfare che si è diligentemente stampato. L’assessore può iniziare e parte a spron battuto inceppandosi solo allo squillo del cellulare del giornalista. “Sono in un convegno, chiamami dopo”. È tutto infervorato e ispirato. Parte dal personale ricordando che anche lui aveva un parente disabile (tutti gli assessori hanno sempre un parente disabile), per poi sottolineare l’impegno del partito e quindi dell’amministrazione, snocciolando cifre, progetti, proposte e sottolineando l’importanza di considerare l’handicap come una risorsa (per chi poi?) e di valorizzare le diverse abilità. Al sesto “diversamente abili” riesco a sgattaiolare in bagno.

Rientro, fingendo di asciugarmi le mani, quando l’assessore sta per concludere l’intervento (quarantacinque minuti contro i dieci previsti). Tocca quindi al direttore dei servizi sociali dell’ASL che proietta una serie di lucidi che illustrano il numero di risposte erogate (mancano i dati sulla domanda) e la spesa sostenuta dalla sua Azienda. Il direttore dei servizi sanitari non vuol essere da meno. Si passa poi al responsabile dell’agenzia delle entrate che sciorina l’elenco delle agevolazioni fiscali a favore delle persone con disabilità. Dal pubblico parte un tentativo di domande, subito placcate dal moderatore, con un segno di intesa con l’assessore: “Per gli interventi c’è un apposito modulo in segreteria: provvederemo a raccoglierli e a rispondere alla fine”.

Ancora un paio di interventi ed è ora della pausa pranzo: “Mi raccomando la puntualità: alle 14 si ricomincia”. È l’una passata.

Il pranzo a buffet, offerto democraticamente a tutti, relatori e uditorio, è spropositatamente esagerato. O meglio è esagerato per cinquanta persone. Scopro dal cameriere, che mi versa un calice di Custoza, che erano attese cinquecento persone. C’è il bengodi: antipasti di pasta sfoglia calda, prosciutto, lasagne, porchetta, dolcetti mignon e torte in fetta e al cucchiaio. Un paradiso per il più sfondato degli ingordi. Eppoi non c’è da accapigliarsi – come spesso accade nei pranzi a buffet – sgomitando per conquistare l’ultima oliva ascolana. Satollo per oggi e domani, sorbisco un caffè e ritorno in sala sperando che il tormento finisca presto.

Mancano quattro interventi. Il primo è quello di una terapista che forse non ha ben compreso quale sia il tema visto che ci racconta un progetto di ricerca sul tunnel carpale.

Il secondo intervento salta per la provvidenziale assenza del relatore. Infine tocca al franco-disabile. Mettiamo tutti la cuffia per la traduzione. La relazione che ne esce, nonostante i cenni di assenso di assessore e dirigenti ASL, non ha né capo né coda. A parte che i due parlano un linguaggio assolutamente diverso, l’interprete non ha la minima idea della terminologia “tecnica” solitamente utilizzata. Ne escono delle bestialità raccapriccianti. Le interpreti dei segni gesticolano in modo sempre più lento e svogliato. Per fortuna non c’è nessun sordo in sala e il silenzioso scambio di battute avviene fra le due interpreti. Ho la certezza che non stiano affatto traducendo in segni quello che l’interprete tenta di riportare in italiano.

È finita. Tocca a me. Il moderatore mi raccomanda di mantenere la mia relazione in quindici minuti. Penso che con quel tempo non riuscirei a far entrare in quella sua testolina nemmeno l’indice delle cose che dovrei esporre, ma lo grazio per non perdere altro tempo. Mi adeguo al clima parlando velocemente, illustrando solo alcuni snodi, condendo il tutto con un po’ di demagogia, che non guasta mai. Concludo di fronte a tredici persone. “Siamo rimasti in pochi, ma davvero interessati al tema – sintetizza l’assessore – che tanto è importante e sentito da averci fatto sforare di oltre un’ora. Non c’è spazio, per questa volta per il dibattito. Ma il dibattito, si sa, è aperto tutto l’anno”.

Con un cerchio alla testa terribile raccolgo le mie carte. È davvero finita. L’assessore mi congeda con cento sperticati ringraziamenti e con un “piccolo omaggio”.

In auto, al primo semaforo, apro il pacchetto: una cravatta di seta blu. Molto fine. La srotolo e sulla punta vedo che è stato ricamato il logo dell’Anno del disabile. Novembre 2003: fortunatamente ho solo un mese per indossarla.