Il grande fardello

Non è cosa da poco poter lavorare. Ed ancora di più, non è cosa di poco conto poter lavorare in un clima non diciamo sereno, ma almeno non conflittuale. È vero: spesso siamo noi stessi i principali protagonisti delle nostre situazioni lavorative, dei rapporti con i colleghi, con i superiori o con i dipendenti. Il nostro carattere, il nostro stile, magari la nostra malcelata pigrizia, o la pedante meticolosità possono infastidire il vicino di scrivania, che contamina con il suo disagio prima l’area contigua, poi il piano e infine l’azienda intiera.

Sono dinamiche che si strutturano nei corridoi e davanti alla macchinetta del caffè. Sono affinità che si instaurano o che si guastano durante la pausa mensa. È la nomea che ci costruiamo nel corso di una carriera lunga anni, edificata non solo sui successi o sugli insuccessi professionali, sugli avanzamenti, sulle nuove mansioni, ma anche sulle relazioni personali, sulle chiacchiere, sui rapporti ora spigolosi, ora ruffiani e qualche volta un po’ servili. In questi scenari riconosciamo un po’ tutti i nostri ambienti di lavoro, pubblici o privati che siano, precari o consolidati. Nulla di insolito, quindi, e, tantomeno, nulla di infrequente in queste situazioni: le viviamo con rassegnazione e fatalismo e tentiamo di contenerne i danni mantenendo la salutare abitudine di lasciare il lavoro fuori dalla porta di casa e la famiglia fuori dal luogo di lavoro. Ma questa consuetudine non è sempre così agevole ed immediata.

Lo si può fare quando non si hanno problemi particolari in famiglia, quando i figli non ci sono, o sono oramai adulti. Lo si può fare quando i bambini crescono, ma stanno bene. Lo si può fare quando i genitori trascorrono senza particolari magagne la loro terza età e più che un peso sono una risorsa.

Ma quando nella propria famiglia si affacciano problemi di salute e di cura, magari di disabilità, con tutto il loro sovraccarico assistenziale, i tempi della famiglia non si coniugano più con quelli del lavoro e con quelli della città.

Con una legge – che vista a posteriori sembra un po’ visionaria – del 2000, la n. 53, il Parlamento li aveva individuati questi problemi, ma aveva anche previsto alcuni possibili tentativi di soluzione.

Innanzitutto erano state sancite misure a sostegno delle aziende che applicassero accordi contrattuali con azioni positive per la flessibilità dell’organizzazione del lavoro. Quindi orari flessibili, part-time reversibili, telelavoro, lavoro a domicilio, progettati per conciliare appunto i tempi del lavoro e i tempi della famiglia. Tutto questo è rimasto lettera morta. E ciò che non è rimasto inevaso è stato spazzato via da una delle più discutibili norme approvate negli ultimi 30 anni: la legge Biagi.

Di fatto e in concreto, oggi non ci sono vie privilegiate per la concessione del part-time per motivi di tipo familiare. La concessione del part-time è il frutto di una brutale contrattazione fra dipendente e ufficio del personale, e tutti gli assi sono nelle maniche di quest’ultimo. Il lavoratore si trova nella più umiliante delle situazioni: richiedere una concessione, un favore, un’elemosina, e non un diritto. Diventa ricattabile, non è difendibile dal sindacato (che spesso ha tutt’altre priorità), deve restare “calmo e zitto” ad aspettare il favore. E certi rospi, anche se si ingoiano solo per il bene della famiglia, sono difficili da digerire. Sono rospi che ingoiano soprattutto le donne, le più coinvolte, checché se ne dica, nell’assistenza familiare.

Ovviamente chi richiede il part-time vede crollare le sue quotazioni all’interno dell’azienda. Succede silenziosamente ma implacabilmente, giorno dopo giorno: le possibilità di carriera e di miglioramento della propria posizione sono minate per sempre. E se questo non basta si guastano anche i rapporti con i colleghi di lavoro.

Tutto questo non riguarda solo i lavoratori che abbiano in famiglia una persona con disabilità. Interessa, molto più diffusamente, chi ha in casa, semplicemente e fortunatamente, bambini che vogliono crescere bene, ma che hanno entrambi i genitori che lavorano e nessun nonno su cui fare affidamento.

E degli asili nido? Vogliamo parlarne? Per la realizzazione di asili nido lo Stato ha previsto negli ultimi tre anni specifici stanziamenti, peraltro senza andare troppo per il sottile circa i controlli di qualità. Ma quanti nuovi asili nido sono sorti? Coprono il fabbisogno? Visti i costi e le liste di attesa non ci pare che l’obiettivo sia stato raggiunto. E della splendida intuizione degli asili nido aziendali che ne è stato? Esistono davvero al di là delle favole?

C’è un gran parlare di responsabilità sociale delle aziende. Il principio, fondato su basi sociologiche serie e autorevoli, deriva dall’intuizione che un’azienda, qualsiasi azienda, non è isolata rispetto alla collettività in cui opera ed agisce. Rispetto alle esigenze e alle aspettative sociali e ambientali della comunità, l’azienda, soprattutto se di grandi dimensioni e ambiziose velleità, deve assumersi una responsabilità riversando parte del proprio utile e del proprio impegno per il bene della collettività di riferimento.

È un modo di intendere positivo. E che ha un ritorno di immagine. Vanno molto di moda i dibattiti e le riflessioni pubbliche sulla responsabilità sociale delle imprese. Come pure sono diffusi e ammiccanti a sinistra gli impegni sociali, sanitari e terzomondisti di molte grandi aziende. Encomiabile! Ma poi… in casa loro che fanno? È sostenibile che un’azienda impegnata in campagne di solidarietà perpetui al suo interno logiche nemmeno paternalistiche? È credibile un’azienda in cui all’esterno vige la logica dell’immagine pulita e positiva, mentre all’interno comanda l’ufficio personale con le sue regole e i suoi ricatti?

Non abbiamo sin qui parlato dei lavoratori che assistono familiari con disabilità.

Ho partecipato recentemente ad un seminario, interessante e pregno di elementi di riflessione (il che è piuttosto raro), organizzato dall’INAS, il patronato della CISL. Vi si presentava, fra l’altro, una nuova e ben confezionata guida su disabili e lavoro, che riserva un ampio spazio ai permessi e ai congedi retribuiti previsti dal Legislatore ormai da anni.

Sì, è vero: ci sono norme precise che fissano l’opportunità di ottenere queste agevolazioni lavorative. È anche vero che le circolari successive e la prassi burocratica spesso vanificano ciò che il Parlamento ha stabilito in via generale. È altrettanto vero che alcune agevolazioni vengono scoraggiate o limitate. Si pensi solo che l’accantonamento per i congedi retribuiti ai genitori di persone con grave disabilità non è stato nemmeno speso del tutto, tant’è che, con la Finanziaria incombente, ritornerà probabilmente all’INPS per essere utilizzato per altri fini.

È ineccepibile: quelle agevolazioni possono essere richieste. E poi? Che costo umano e professionale c’è per il lavoratore nel richiedere quell’agevolazione? Come lo considera l’azienda? Un privilegiato? Un peso? Una persona su cui non fare affidamento? È probabile. Forse è anche fisiologico – per un’azienda miope, bene inteso – che chi è meno presente venga marginalizzato.

Meno comprensibile ed accettabile è l’atteggiamento dei colleghi e di parte delle rappresentanze sindacali. Quel lavoratore non è un collega che ha dei privilegi: è una persona che ha dei problemi in famiglia e che se potesse farebbe volentieri a meno dei tre giorni di permesso o dei due anni di congedo in cambio della serenità, della tranquillità, della salute.

Quel lavoratore è portatore di problemi che fanno parte della nostra società nella sua interezza e che devono essere affrontati, se non con la solidarietà, almeno con il rispetto e l’intelligenza, perché domani potrebbero capitare a chiunque. (Carlo Giacobini)