Sapete come mi trattano?

La Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap ha coraggiosamente lanciato un concorso che intende raccogliere testimonianze “creative” sulla discriminazione e sulla segregazione delle persone con disabilità. Foto, vignette, sceneggiature, cortometraggi faranno a gara per raccontare nel modo più efficace possibile storie di tutti i giorni che troppo di rado giungono all’attenzione dei più. “Sapete come mi trattano?” è il significativo titolo dell’iniziativa.

Coraggiosa, dicevamo.

Beh, sì! Ci vuole coraggio a lanciare un tema del genere, così fastidioso, così difficile da rendere e così facile da fraintendere.

Il malessere, il disagio, il senso di costrizione e prigionia invisibile sono difficili da trasporre in modo figurativo. È una sfida che ci incuriosisce, confidando sulle tecniche di comunicazioni e sugli strumenti visuali che a noi sono ignoti. Ma che non è facile per i suoi elementi di contenuto.

Non è semplice, se l’autore è una persona con disabilità che vive una discriminazione, comunicare la propria situazione. Ma è ancora più difficile se l’autore disabile non è, e nella sua opera rischia di riversare personalissimi convincimenti, se non pregiudizi (positivi o negativi che siano).

È, quindi, con vivissima curiosità che attendiamo l’arrivo delle opere. Comunque vada sarà un successo! Nel senso che impareremo qualcosa, capiremo, nel bene o male, come e se la discriminazione viene riconosciuta. E chissà che non arrivi anche qualche efficace strumento che incida sul sentire di quell’impalpabilmente concreta “opinione pubblica”.

Ma il tema può essere anche frainteso. Denunciare la discriminazione sulla base della disabilità potrebbe, ingiustamente, essere frainteso con uno strisciante pietismo. Impietosire con storie tristi per ottenere carità, concessioni, consolatorie pacche sulle spalle.

Sappiamo per certo che non è questo l’intento.

L’intento è quello di contrastare la discriminazione, di sconfiggerla, di rimuoverla. Di battere, e non nel giro di generazioni, il pregiudizio basato sulla disabilità. Il pregiudizio e, naturalmente, le azioni che ne derivano, che non sono solo gli atti di violenza, di bullismo, di sopraffazione, ma sono anche l’indifferenza quotidiana, l’accettazione ineluttabile che la disabilità sia un’intangibile disgrazia.

Tema fastidioso, dicevamo.

Beh, sì! È fastidioso dover riconoscere che la discriminazione non appartiene solo ad un barbaro vandalo che picchia un’anziana disabile, o ad un bulletto 13enne che costringe, sghignazzante, il coetaneo con disabilità intellettiva alle più odiose umiliazioni.

È fastidioso dover ammettere che la discriminazione è molto più diffusa di quanto appaia dalla lettura dei giornali, che è molto vicina a noi, che è fra noi e che troppo spesso non ci scalfisce oppure la derubrichiamo fra gli eventi ineluttabili, ruotando il capo verso più ameni scenari.

Ci volgiamo verso considerazioni più piacevoli. Oppure, se proprio dobbiamo pensarci, preferiamo adottare una visione della disabilità positiva, comunque solare e sorridente. È solo una diversa abilità senza alcun disagio, sconforto, frustrazione, accettata e apprezzata. Preferiamo non pensare che ci sia un profondo pregiudizio e consolidate azione che creano discriminazione e segregazione.

Eppure tante ispirazioni, che ci crediate o no, le possiamo scovare senza troppa fatica anche nella nostra città, vicino a casa nostra. Basta volerle riconoscere.

Vicino a casa nostra sopravvive una persona con disabilità solo grazie al monolocale che gli hanno lasciato i genitori e grazie ad una pensione di invalidità. Ad esso è preclusa qualsiasi attività sociale che comporti la spesa anche di un solo euro.

Vicino a casa nostra sopravvive un istituto in cui le persone sono segregate, cioè non possono uscire, avere un loro progetto di vita, scegliere a che ora andare a dormire o quando spegnere la luce, o che camicia mettersi.

Vicino a casa nostra per molti disabili, soprattutto se gravi, l’unica prospettiva di vita sono i cestini di vimini dal lunedì al venerdì. Questo è quanto una collettività ha saputo costruire per loro, per farli sparire dall’orizzonte felice della propria comunità.

Vicino a casa nostra vivono coppie di anziani che non possono uscire di casa perché le 8 rampe di scale non sono servite da un ascensore. Vecchi di cui si ricorda a malapena il prete una volta all’anno.

Attorno a casa nostra circolano frenetici autobus, variopinti di pubblicità, in cui le persone disabili non possono salire. Come i neri in Alabama nel 1955. Solo che almeno loro, le persone di colore, potevano rifiutarsi di scendere. I nostri non possono nemmeno salire.

Fastidioso vero? Proviamo a raccontarlo a tutti. (Carlo Giacobini)