Il covo

Amava la sua poltrona. Lo sapevano tutti, tranne lui. Lui che sulla poltrona ci passava le ore, non l’aveva mai ben espressa quella passione, ma chi lo circondava era persuaso che fosse la sua tana prediletta e che mai vi avrebbe rinunciato. Non era così. Era che un altro posto, che non fosse il letto, in casa non ce l’aveva.

Quand’era venuto via dal “covo” – lo chiamava ancora così – il raggio d’azione era più o meno quello. Camera, poltrona, balcone se non pioveva o non faceva troppo caldo, tavolo della cucina.

Era casa sua, riaperta dopo qualche anno di chiusura forzata, ne conosceva a memoria anche le fughe fra le piastrelle, le singole crepe.

Portarlo via dal covo era stato un orgoglioso puntiglio degli operatori del comune con l’avallo della figlia. E anche il suo, tutto sommato. Ci si erano messi pure i vicini. Interpellati si erano dichiarati entusiasticamente disponibili a supportare il rientro a domicilio del simpatico vecchietto “se ne avrà bisogno siamo qua, pronti, all’erta. La comunità è importante e noi siamo persone civili.”

E così, in una mattina di primavera, aveva varcato il cancello del covo, in uscita stavolta. I suoi averi in tre valigie, il saluto degli altri ospiti, degli assistenti, del giardiniere tutto fare.

L’eccitata assistente sociale lo aspettava già a casa, con Adelina la badante che lo avrebbe seguito, e tanto tanto entusiasmo per questo “fantastico ritorno alla vita, una vita strappata alla segregazione del bigio istituto, una storia che insegna che tutto è possibile con la volontà, con la solidarietà.” Non taceva più girando per le stanze, roteando le braccia come a descrivere sconfinate praterie.

La figlia, ritornata velocemente da Milano, da buona manager ci teneva a dimostrare come l’operazione di liberalo fosse anche economicamente sostenibile e tutt’altro che svantaggiosa. Si risparmiava sull’istituto, si risparmiava sull’ICI, si risparmiava su altri annessi e connessi. C’era, sì, il costo della badante ma ridotto al minimo grazie ad alcuni “artifizi”. Artifizi… chissà cosa significava. Altrettanto velocemente, nel primo pomeriggio e dopo un ventina di telefonate di lavoro, sua figlia se n’era ripartita per Milano. Questo ormai un anno fa.

Ad 84 anni, un ictus e due infarti cosa poteva desiderare di meglio? Magari qualche faccia amica che appena più sovente passasse trovarlo, come Alfonso, il suo cugino che ora gli stava davanti e interrogativo, confidando in una risposta entusiastica, si informava di come andasse la sua vita e di come fosse migliorata.

Vuoi la verità? Stavo meglio al covo. Molto meglio. C’erano tante persone che potevo evitare, ma altrettante con cui potevo parlare, incazzarmi, deridere, sfogarmi, contraddire, sostenere. È vero: la cena e il pranzo erano ad ore fisse, ma lo sai quanta sicurezza ti restituiscono quei ritmi certi? È un passaggio da attendere, un riferimento quotidiano. Qui in casa quelle scansioni sono labili, incerte. Posso mangiare o saltare, anticipare o rimandare, farmi prendere dalla pigrizia e dal deliquio con il cervello che non ha più un orologio. È un modo di diventare rapidamente un vecchio riconglionito. Sì, pure io che ho due lauree e 40 anni di insegnamento alle spalle. Al covo era un po’ come essere tornati in caserma e io di quegli anni giovanili non ho affatto un tragico ricordo.

Nel covo eravamo oltre 120 ospiti. Potevo cambiare sala finché trovavo una trasmissione decente. Qua in casa governa lei, Adelina e ci nutriamo dei programmi più immondi. Non è cattiva: è ignorante. È buona, ma non ci puoi parlare. E poi passa il suo tempo con quel telefono in mano a scrivere in chissà che lingua e con quale sintassi. E a parlare in un idioma slavo irto di gutturali e dentali.

Cucina di merda, non è colpa sua. Non lo sa fare, pensa che mangia i cetrioli interi e con la buccia. Al covo l’avrebbero cacciata dopo due giorni.

Fra volontari e parenti di ospiti, vedevo più gente là che qua in casa. Mi conoscevano tutti e si fermavano per una battuta o per una chiacchiera. Qua no. I vicini li sento uscire, li sento rientrare a tarda ora. Li sento litigare. Amico mio, sono sepolto in casa con la mia libertà. Ignazio, il professore, libero in nella gabbia di casa propria. Stavo mille volte meglio al covo, anche se qualcuno faceva lo stronzo, anche se alle 10 c’era il coprifuoco … Meglio quella prigionia che questa libertà. Ho la sola consolazione di essere certo che non durerà a lungo.”

Ignazio, finora clinato in avanti nello sforzo oratorio, riprende la postura consueta nella sua amatissima poltrona. (Carlo Giacobini)