Esiste un atto dell’8 luglio 2021 con cui il Consiglio d’Europa ha stabilito, dopo averlo valutato e approvato, l’esecuzione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia. Un corposo allegato (567 pagine) illustra quali saranno gli interventi e le riforme che il nostro Paese intende adottare. Su quell’allegato si fondano i relativi ingenti finanziamenti destinati all’Italia.
Fra le numerose Missioni previste e approvate, alla Missione 5 è fissata esplicitamente la Riforma 1 denominata “Legge quadro sulle disabilità”. Merita di esserne letta integralmente la descrizione: “L’obiettivo principale della riforma è quello di modificare la legislazione sulle disabilità e promuovere la deistituzionalizzazione (vale a dire il trasferimento dalle istituzioni pubbliche o private alla famiglia o alle case della comunità) e l’autonomia delle persone con disabilità. Ciò deve comportare
I) il rafforzamento dell’offerta di servizi sociali;
II) la semplificazione dell’accesso ai servizi sociali e sanitari;
III) la riforma delle procedure di accertamento delle disabilità;
IV) la promozione di progetti di vita indipendente;
e V) la promozione del lavoro di gruppi di esperti in grado di sostenere le persone con disabilità con esigenze multidimensionali.”
Il nostro Governo sta attivando e coordinando le azioni previste dal PNNR concordato con Bruxelles con tutte le comprensibili accelerazioni che si notano in queste settimane.
È anche in questo solco che il Consiglio dei Ministri ha approvato a fine ottobre uno schema di disegno di legge delega che riguarda appunto la disabilità approdato alla Camera (Atto della Camera 3347) per la relativa discussione e approvazione.
Non è una legge quadro
Alcuni commentatori, complice forse qualche parola di troppo in ambito governativo e nella stessa relazione illustrativa, hanno elevato questa legge delega a legge quadro, la legge quadro per la disabilità, appunto.
A ben vedere, tuttavia, il testo di legge delega non innesca affatto una legge quadro giacché di quei cinque punti concordati con la UE (che già non esauriscono di certo gli scenari che interessano la disabilità) sceglie di affrontarne solo uno, quello della “riforma delle procedure di accertamento delle disabilità” e ci aggiunge – fuori sacco – poco altro.
Fare presto?
Un altro elemento di contesto è la variabile tempo: il refrain è che bisogna fare in fretta, che i tempi sono stretti, che la legge va approvata come collegato alla legge di bilancio, che lo chiedono gli accordi con la UE.
Viene da chiedersi come mai la stessa impellenza non riguardi anche gli altri quattro punti e, in particolare, il tema del rafforzamento dell’offerta dei servizi sociali e la semplificazione dell’accesso ai servizi sociali e sanitari.
Ma tant’è: l’effetto sarà una fortissima compressione dei tempi da dedicare al confronto, agli approfondimenti, alle audizioni di commissione, ai dettagli di una delega che, per quanto monca rispetto agli accordi con l’UE, reca delle complessità, non certo risolvibili con la fiducia o con gli ipse dixit, e degli aspetti delicatissimi, poiché riguardano i diritti e le opportunità di milioni di persone e delle loro famiglie. Tanto più che il testo, come lamentato da più parti, non è certo stato condiviso in modo ampio, nemmeno con le forze della maggioranza, prima di approdare a Palazzo Chigi per il voto corale.
Nuovi accertamenti fra timori e speranze
Dunque – ripetiamo – quella sul piatto non è di certo una legge quadro e riguarda in particolare il riconoscimento della condizione di disabilità, passaggio che non può che far alzare le antenne a generazioni di persone con disabilità avvezze, sul punto, alle peggiori storture. Ma, al netto della sua ristrettezza e dei suoi vincoli, nel merito il testo proposto ha una sua sostenibilità?
Che sia un testo con varie contraddizioni, inutilmente complesso, in buona misura inattuabile in tempi brevi, non scevro da paradossi, è già forse conveniente anticiparlo.
Si poteva fare di meglio? Certamente sì: una proposta differente, più semplice, più condivisa, meno pretenziosa, più logica, meno inutilmente ideologica, sicuramente con maggiore visione, esisteva già, ma è stata in parte ignorata, in parte ripresa malamente e per frammenti nella stesura del disegno di legge delega.
Lontana dal programma d’azione
Ci stiamo riferendo alla proposta presente nel secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità adottato con il Decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 2017. Era l’esito di una meditazione e di una elaborazione durata due anni ad opera di uno specifico gruppo dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. Un confronto proficuo che aveva coinvolto associazioni, esperti, professionisti, sindacati, ministeri, regioni, giungendo ad una buona sintesi e proponendo appunto anche gli elementi per la redazione di una legge delega.
Le criticità di sistema rilevate allora sono ancora attuali, anzi forse alcune questioni sono ancora più severe.
Nel 2017 si diceva altro
Il programma d’azione è ancora là ed è facilmente consultabile da chiunque. E la Linea 1 è straordinariamente lucida nel focalizzare le questioni da aggredire. Vediamo le più calzanti.
La prima: la sovrapposizione di due sistemi di accertamento, quello dell’“handicap” (legge 104) e quello dell’“invalidità civile, sordità e cecità civili”, senza che nessuno dei due produca a concreta individuazione degli interventi a favore delle persone con disabilità; oltre a certificazioni per il riconoscimento di alunno in situazione di disabilità e di lavoratore con disabilità (legge 68/1999) che non generano un conseguente percorso di accompagnamento nell’inclusione in tali contesti.
La seconda: le modalità “tabellari” di valutazione delle minorazioni civili, che trovano il loro fondamento sulla desueta inabilità lavorativa generica e su valutazioni in forma percentuale, poco spendibili in termini di progettazione personale e rispetto alla fornitura di sostegni e supporti per la piena ed effettiva partecipazione sociale delle persone con disabilità.
Ancora: la mancata separazione e specializzazione dei percorsi di valutazione e accertamento per minori e adulti con disabilità e anziani.
E sempre riguardo al sistema di accertamento: uno scarso controllo di qualità dell’attività valutativa, peraltro svolta da commissioni ridondanti per composizione, nelle quali le responsabilità dei singoli finiscono per essere diluite.
Questo solo per citare le principali criticità, peraltro evidenti non solo ai professionisti, ma ad ogni singola persona e famiglia che hanno ben chiari i processi, le visite di revisione ripetute nel tempo anche in casi di evidente stabilizzazione, per tacere dei controlli (ben 1.200.000) operati fra il 2009 e il 2012 in una demagogica quanto improduttiva caccia ai falsi invalidi.
Lavoro e scuola: ce ne siamo dimenticati?
Dal 2017, dall’adozione del programma di azione, alla mancata attuazione dello stesso, i vari Governi sono rimasti immoti (finora) anche rispetto ad altre due incombenze: la revisione dei criteri di individuazione degli alunni con disabilità (art. 1, comma 181, lett. c), n. 5, della legge 13 luglio 2015, n. 107) e la revisione del sistema di valutazione della disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa ai sensi della legge n. 68/99 (art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 14 settembre 2015, n.151). E mentre sulla prima incombenza esiste una proposta del Ministero della salute (la cui complicazione meriterebbe un approfondimento a parte), sulla seconda siamo ancora a “caro amico”. Il disegno di legge delega sembra ignorare queste due incombenze o comunque non spiega come intenda renderle congruenti con il nuovo sistema o se ne costituiscano gemmazioni.
Quale semplificazione?
Ma torniamo al programma d’azione, non tanto per un gusto di ricostruzione storica, ma per capire quanti pezzi, quante intuizioni, quante riflessioni condivise si siano smarrite nel proporre il testo di legge delega.
Il primo intento era quello di riunificare i differenti accertamenti almeno per la valutazione di base. In tal senso andava superata la differenziazione tra l’accertamento di handicap e quello delle minorazioni civili, che sovente vengono richiesti solo per aver accesso a singole e specifiche prestazioni sanitarie o ausili ovvero per ricevere solo prestazioni assistenziali e non certo interventi di promozione per la partecipazione alla vita sociale della persona.
La valutazione multidimensionale era invece mirata al riconoscimento della condizione di disabilità, utile a delineare e coordinare i necessari interventi a favore della persona e sul contesto, all’interno di uno specifico progetto personale. Tale progetto, come idealizzato dal programma di azione, avrebbe indicato gli strumenti, le risorse, i servizi, le misure, gli accomodamenti ragionevoli necessari a compensare le limitazioni alle attività e alla partecipazione nei diversi ambiti della vita (inclusi quelli lavorativi e scolastici) e nel contesto di riferimento della persona.
Solo apparentemente la proposta di legge delega segue i medesimi intenti, e comunque vira su ipotesi operative ben diverse.
Il programma d’azione indicava come principio direttivo “a) razionalizzare i processi valutativi attualmente vigenti in un unico procedimento e rivedere conseguentemente i requisiti di accesso ai trattamenti assistenziali, ai benefici fiscali, alle agevolazioni lavorative e ai servizi per l’inclusione lavorativa e scolastica”. Il disegno di legge delega al contrario prevede il mantenimento dei percorsi di accertamento delle minorazioni civili, addirittura con dei consolidamenti che poi diremo.
Cosa ci dobbiamo attendere
Altri due principi direttivi ipotizzati nel 2017 erano: “b) disgiungere la valutazione di “base” dalla valutazione multidimensionale volta alla predisposizione dei progetti individuali, che si presta più facilmente all’introduzione e all’applicazione di un modello bio-psico-sociale;” e “c) prevedere misure di raccordo tra i due procedimenti di valutazione che tengano conto del modello bio-psico-sociale;”. Nel 2021, con il disegno di legge delega ci ritroviamo con il seguente quadro:
a – viene eliminata la definizione di handicap (legge 104) e, congruamente, sostituita con la definizione di disabilità ricorrendo alle classificazioni dell’OMS, ICF (Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità) e ICD (Classificazione internazionale delle malattie); questa condizione è oggetto di riconoscimento ad opera di un soggetto che non è indicato compiutamente nel disegno di legge delega; potrebbe essere INPS, ma non è precisato.
b – rimangono così come sono gli accertamenti delle minorazioni civili, quelli della legge 68/1999 e quelli relativi “all’handicap, anche ai fini scolastici, ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104” (così nel testo); il confuso testo non lascia comprendere se questi accertamenti siano unificati con quelli di base relativi alla nuova definizione di disabilità oppure no. Vale la pena sottolineare che l’accertamento ai fini scolastici o quello ai fini lavorativi non possono certo essere ritenuti “di base”. Di certo c’è l’affidamento, per tutti questi accertamenti, “ad un unico soggetto pubblico dell’esclusiva competenza medico-legale sulle procedure valutative”. Tradotto: INPS. Ciò rafforzerebbe notevolmente la posizione dell’Istituto cui già oggi spetta l’ultima parola su tutti i verbali di invalidità, cecità, sordità, handicap, legge 68/1999. In alcune regioni INPS gestisce già tutta la “filiera”, incluse le visite di prima istanza; in altre quest’ultima rimane competenza delle ASL.
c – viene prevista, come “facoltativa”, la possibilità di richiedere, dopo avere ottenuto il riconoscimento di base, una valutazione multidimensionale, che sia svolta tenendo conto delle indicazioni dell’ICF e dell’ICD e che definisca un profilo di funzionamento della persona, necessario alla predisposizione del progetto “personalizzato” e al monitoraggio nel tempo dei suoi effetti.
Nella sostanza: per le prestazioni di base (monetarie, fiscali, assistenziali ecc.) rimane una valutazione di base (da capire se disgiunta o meno). Chiunque invece voglia accedere a prestazioni o supporti o presa in carico o progettazione personale dovrà transitare in unità di valutazione multidimensionale. Il disegno di legge non indica le modalità con cui il cittadino può ricorrere contro la valutazione multidimensionale o contro la proposta di progetto personale.
Bio-psico-sociale a fasi alterne
In questo quadro, come si anticipava sopra, il disegno di legge delega prevede anche l’aggiornamento delle tabelle delle percentuali “degli stati invalidanti” (così nel testo) che risalgono al decreto del Ministro della sanità 5 febbraio 1992. Per questi, il disegno di legge non fa uno specifico richiamo all’ICF, all’ICD o al bio-psico-sociale. Appare chiaro che non vi sia alcuna volontà di superamento del concetto di minorazione civile, dell’inabilità generica al lavoro e delle metodologie usate per applicare quelle tabelle. In questo vi è una incolmabile distanza con quanto delineato nel programma di azione del 2017. E ve ne sono delle altre.
Si riteneva allora che una legge delega dovesse “separare i percorsi valutativi per le persone anziane da quelli previsti per gli adulti e da quelli previsti per i minori;” dovesse “individuare la strumentazione valutativa, al fine di graduare le limitazioni delle attività della vita quotidiana come indicatore di necessità assistenziali specifiche;” e dovesse “fornire gli elementi di valutazione per la definizione del concetto di non autosufficienza anche in previsione di compiute politiche di “long term care”.
Nulla di tutto ciò, purtroppo, è nel disegno di legge delega. Si perde così l’occasione di compensare operativamente storture, discrasie, inefficienze dei percorsi valutativi attuali; di specializzare le valutazioni anche in relazione all’età o alla presenza di malattie rare; di collegare razionalmente questa riforma a quell’altra prevista dal PNRR, altrettanto rilevante, sulla non autosufficienza. Già, perché mentre si discetta sulla legge delega sulla disabilità, è in predisposizione un’altra “riforma” che dovrebbe assumere la veste di un vero Piano sulla non autosufficienza.
E le due riforme sembrano marciare per proprio conto.
La rivedibilità
Si riteneva nel 2017 di dover “indicare in modo esplicito l’esclusione dalla rivedibilità nel tempo di specifiche situazioni, ferme restanti le esclusioni sancite dalle norme in vigore.” Al contrario il nuovo disegno di legge si preoccupa di prevedere “un efficace sistema di controlli sulla effettiva sussistenza e permanenza dello stato invalidante, in modo da monitorare l’adeguatezza delle prestazioni rese”. Passaggio inquietante ed evocativo di spiacevoli déjà vu.
Ma questa occhiuta attenzione rimane monca di indicazioni che possano essere utili ad individuare criteri certi e trasparenti per consentire la definizione di soglie differenziate per l’accesso a benefici, prestazioni, servizi e trasferimenti di varia natura, e in particolare ad accertare le condizioni di dipendenza vitale o di estrema intensità dei sostegni necessari per la vita quotidiana.
A tratti gli estensori sembrano risolvere questi aspetti rimandandoli ad un ipotetico progetto personale di vita; in altri passaggi delineando nella nuova valutazione di base della disabilità una equipollenza con l’handicap o con l’handicap in condizione di gravità in modo che siano “assicurati” i relativi benefici. E poi la relazione tecnica che accompagna il disegno di legge lo dice schietto: “Preliminarmente, occorre evidenziare che la nuova definizione della condizione di disabilità che andrà a sostituire quella di “handicap” attualmente prevista dalla legge n. 104 del 1992. La nuova definizione non comporta una differente individuazione della platea, né in senso restrittivo, né in senso estensivo.”
Ne esce un quadro logico piuttosto scombiccherato che non giova a nessuno.
Una sintesi sulla valutazione di base
Il testo è assai poco determinato, quanto non approssimativo, nello spingersi verso una reale semplificazione dei procedimenti, verso il superamento dei vecchi arnesi della minorazione civile, verso l’adozione di processi efficaci e trasparenti. E, in aggiunta, ignora o finge di ignorare che nel frattempo gli accertamenti in ambito scolastico, lavorativo e per la non autosufficienza stanno seguendo percorsi altri. Lontanissimo comunque da qualsiasi semplificazione, anzi.
Valutazione multidimensionale
L’altro àmbito su cui si concentra il disegno di legge è quello della valutazione multidimensionale e dei contenuti del progetto personale che ne dovrebbe derivare. È doveroso rammentare che la valutazione multidimensionale è già prevista come livello essenziale, in ambito sociosanitario, dall’ultimo decreto sui LEA (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, 12 gennaio 2017). Il disegno di legge, semmai, vi attribuisce nuove competenze e strutture, forse dimenticando di quanto queste indicazioni impattino sulle competenze schiettamente regionali e sulle rispettive politiche sanitarie e sociosanitarie.
In modo generico quanto velleitario il disegno di legge si impone di “prevedere modalità di coordinamento tra le Amministrazioni coinvolte per l’integrazione della programmazione sociale e sanitaria nazionale e regionale” (ricordate la legge 328/2000?). Ma tant’è: la valutazione multidimensionale dovrà produrre il “profilo di funzionamento della persona, necessario alla predisposizione del progetto personalizzato e al monitoraggio nel tempo dei suoi effetti.”
Progettare la vita (?)
Nei passaggi successivi il “progetto personalizzato” cede il passo al più ambizioso “progetto di vita personalizzato”, e si entra nel merito di come esso dovrebbe essere redatto, quali elementi dovrebbe contenere, in base a quali modalità. Insomma, nel disegno di legge si trovano già le indicazioni, che forse era preferibile rimandare ai decreti attuativi dopo attentissimo confronto, su come ottenere quello che i redattori ritengono essere il migliore progetto possibile.
Brilla, in tutto il testo e in particolare nella parte che profila la redazione del progetto personalizzato, la totale assenza di riferimenti ai percorsi di accompagnamento alla deistituzionalizzazione. È una carenza che svicola l’impegno assunto con la UE (“modificare la legislazione sulle disabilità e promuovere la deistituzionalizzazione”), i principi della Convenzione ONU e le necessità pratiche di circa 250.000 mila persone che in Italia vivono in strutture segreganti, considerando solo quelle a regime residenziale e non anche quelle semi-residenziali.
Di fatto però – va detto ai tanti lettori che possono aver frainteso molte entusiastiche dichiarazioni – si avrà diritto ad una buona (forse) redazione di un progetto personale, ma, al momento e per tempo indefinito, la sua realizzazione non è affatto un livello essenziale e, quindi, un reale diritto soggettivo. Lo afferma lo stesso disegno di legge: prima cautamente si assumeranno degli obiettivi di servizio, poi forse si giungerà a livelli essenziali. Più schiettamente: non ci sono robuste risorse aggiuntive oltre a quelle già note, anche annoverando alcune misure del PNRR, oltre ai fondi e fondini che prolificheranno nell’imminente legge di bilancio.
Coprogettazione coatta
Nel disegno di legge la partecipazione delle persone o di chi le rappresenta è giustamente e correttamente richiamata. Ma è richiamato anche l’obbligo di “assicurare che l’elaborazione del progetto di vita personalizzato e partecipato coinvolga attivamente anche gli enti del Terzo settore”. Resta l’interrogativo rispetto all’autodeterminazione della persona che potrebbe non volerlo affatto quel coinvolgimento. E di interrogativo ne resta anche un altro: quegli attori potrebbero essere anche enti gestori di servizi, ponendo un dubbio di conflitto di interessi, in particolare in sede di elaborazione di un progetto personale.
Budget di progetto
Incerta da un punto di vista logico è la profilazione del cosiddetto “budget di progetto” che secondo il disegno di legge è “l’insieme delle risorse umane, professionali, tecnologiche, strumentali ed economiche volte a dare attuazione alla progettazione (…)”. A prescindere che per tempi indefiniti quel “budget” è condizionato alle disponibilità di bilancio, non è ben chiaro se il budget stesso coincida con il progetto oppure possa essere una modalità pattizia, contrattuale e autodeterminata; senza dubbio appare qualcosa di (ancora!) differente dal già sperimentato “budget di cura”. Una riflessione che meriterebbe molti approfondimenti e l’apertura a soluzioni migliori e più efficaci, ma che in presenza di una definizione così stringente non gode di molti spazi per discussioni successive o soluzioni differenti.
Una sintesi sulla valutazione multidimensionale e il progetto personale (di vita): il rischio di generare uno scatolone vuoto deriva dall’assenza di risorse, dalle competenze regionali su cui si va ad impattare, dalla vaghezza del flusso organizzativo che non distingue fra valutazione, progettazione, presa in carico e non ne individua le responsabilità né le modalità per individuarle. E da una una certa ipertrofia dei processi valutativi.
Inclusione e accessibilità
La parte del disegno di legge che vorrebbe la “riqualificazione dei servizi pubblici in materia di inclusione e accessibilità” è probabilmente la più deludente, la più lontana dalla Convenzione ONU, per non dire dalla Strategia sulla disabilità 2021-2030, da diverse direttive UE sull’accessibilità e da norme italiane.
Il tema dell’accessibilità dei servizi pubblici e privati è centrale quotidianità delle persone con disabilità. Tutte le disabilità a prescindere dalle minorazioni (fisiche, cognitive, relazionali, sensoriali). C’è necessità di ripensare gli spazi, le modalità di informazione, gli strumenti di mediazione, interpretariato, accompagnamento. Abbiamo norme (ad es. legge 13/1989 e dm 236/1989) che fissano standard di accessibilità che attendono di essere rivisti e aggiornati, ma abbiamo anche direttive UE e norme nazionali che fissano standard e obblighi di accessibilità degli strumenti informatici. Eppure, gran parte dei registri scolastici non sono accessibili ad insegnati, genitori, studenti. Per un non vedente non è possibile consultare in privato, e senza ricorrere al supporto di un’altra persona, gli esiti dei propri esami del sangue. E ancora, presso il nostro Parlamento gli Atti del Governo vengono pubblicati in modalità, bollinata sì, ma non accessibile. Solo tre esempi che possono essere integrati da chiunque. Eppure, siamo in presenza di norme e di standard, di obblighi e di sanzioni.
Fa male quindi rilevare come un disegno di legge delega riduca questi obblighi e questi standard, che mai richiama, a materia da programmazione strategica, ad obiettivi di produttività, a standard di qualità da indicare nella carta dei servizi, elementi per valutare le performance del personale dirigenziale.
Non un diritto, non un dovere, ma un annacquato elemento di qualità.
Ci si augura che l’altra riforma prevista dal PNRR, quella che riguarda gli appalti e i criteri di ammissibilità, sia più attenta al rispetto delle norme e degli standard in materia di accessibilità.
Garante delle disabilità
L’ultimo aspetto di novità del disegno di legge è la previsione dell’istituzione del Garante nazionale delle disabilità con un profilo molto simile ad altri Garanti (infanzia, persone private della libertà personale, in particolare). Come questi potrebbe funzionare ed essere efficace oppure essere ininfluente nel panorama delle norme.
Sotto il profilo tecnico andrebbero chiarite le relazioni, qualora ve ne siano, con l’Ufficio per le politiche in favore delle persone con disabilità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il Ministero per le disabilità e con l’Osservatorio nazionale per la condizione delle persone con disabilità.
Se non vi fossero sovrapposizioni e se il Garante fosse un organo indipendente dagli altri citati, possibilmente anche senza interessenze con le stesse organizzazioni delle persone con disabilità o con il terzo settore, cioè al servizio diretto dei cittadini, vi sarebbero le premesse per risultati positivi.