Il superbimbo

Ma non sembra anche a voi che le città che abitiamo, le spiagge che dovrebbero rilassarci, i nostri ristoranti, negozi e supermercati, i nostri treni siano frequentati da un numero sempre maggiore di bambini rumorosi e caciaroni? Per usare un termine retrò e pedagogicamente scorretto: maleducati. Adoro il rumore dei loro passettini che si allontanano da me, scriveva qualcuno. Toccano tutto, berciano, saltano, corrono, pretendono l’acquisto immediato di tutte le diavolerie, cinesi o nostrane, esposte – con perfido calcolo – in qualsiasi negozio. E le ottengono grazie alle loro urla, non potenti, ma di tre toni sopra l’acuto. Un comportamento fastidioso ma comprensibile e tipico della loro età.

È molto meno digeribile l’atteggiamento dei loro genitori che, impassibili, non reagiscono. Cascasse il mondo la madre continua a parlare con l’amica del cuore, il padre a discorrere al cellulare. Hanno insegnato loro che quando il bimbo fa i capricci va ignorato (e così lo sopportano gli altri). Hanno imparato che anche il più amorevole scapaccione è diseducativo e genera mostri violenti. Il bimbo va lasciato libero di correre, saltare, giocare senza regole né freni, sennò ne blocchiamo lo sviluppo (psichico, ovviamente), ne limitiamo la creatività, la capacità di relazionarsi agli altri.

Facendo parte, senza merito alcuno, di quella generazione che è stata tirata su anche con l’aiuto di qualche ceffone, mi risulta difficile comprendere. E anche se l’atteggiamento mi dicono essere supportato da insigni pareri psicopedagogici, continuo a pensare che il bimbo abbia bisogno anche di autorità ed autorevolezza. Forse, addirittura, alcuni comportamenti derivano proprio dalla necessità di sentirsi dire qualche “no!”, qualche “mo’, basta!”. Ma queste imposizioni costano fatica, impegno ed autorevolezza, appunto. Meglio lasciarli fare.

Non è facile allevare figli, ma forse si sta un po’ perdendo il senso della misura, viziati come sono da modelli televisivi e pubblicitari che dipingono solo bimbi felici, belli, sani e forti grazie ai biscotti proteici, all’acqua minerale senza sodio (perché poi?), alla carne in scatola (manco un pasto decente sa preparare la dolce mammina!), ai vari giochi intelligenti che renderanno nostro figlio più saputo del più odioso secchione.

E non ne accettiamo i difetti, i limiti, le pigrizie. Gli inculchiamo corsi di nuoto, corsi di ballo, corsi di tedesco, arti marziali, ginnastica artistica, pianoforte, violino, recitazione e dizione. Il loro piccolo cervello è come una spugna, meglio allora impregnarlo bene da subito, anche perché – intanto – se ne stanno fuori dai piedi. Poi ci pensa la Tv a intrattenerli. A proposito … avete notato che oramai, dalle sei del mattino alle dieci di sera c’è sempre qualcosa – magari in un canale locale – che può intrattenere i bambini?

Con questi modelli di riferimento è ancora più difficile crescere un bambino che abbia delle difficoltà, che sia disabile. Già perché le difficoltà si amplificano, il senso di incompletezza può apparire maggiore e divenire insostenibile, perché il bambino è ancora più lontano dal modello tipo che ci si immagina e che tutti si aspetterebbero.

Il rischio è, allora, di non volergli far mancare nulla, di non opporre mai la propria autorità di genitori ché apparirebbe come una inutile crudeltà. Si incontrano difficoltà enormi a garantire il distacco, indispensabile alla sua crescita, perché prevale la protezione ad ogni costo. Diviene improponibile la costruzione quotidiana della sua autonomia – quella credibile, quella possibile – perché questa porterebbe a scontrarsi con esempi di superbambino (e di supermamma) che sarebbero causa di frustrazioni per tutta la famiglia.

Si confeziona allora, in perfetta buona fede, una cappa di vetro che protegga dai medici, dalle commissioni di accertamento, dagli insegnati di sostegno, dagli psicopedagogisti – e fin qui tutto bene – ma anche dalle curiosità degli altri bambini, dai confronti, dalle prove, dalle delusioni affettive o amorose. L’asilo, la scuola, l’università non rappresentano momenti di crescita, ma terreni minati.

Non sempre poi la scuola aiuta ad uscire da questa spirale anche se poco può fare di fronte alla prevalenza educativa della famiglia. Non parliamo del problema – dai risvolti ignobili, perché questo è il termine corretto – del bidello che si rifiuta di accompagnare a fare pipì l’alunno disabile. Non alludiamo nemmeno alla scarsità numerica degli insegnanti di sostegno, né all’inaccessibilità di molte scuole e neppure alla carenza di tecnologie utili alle persone con disabilità. No. Pensiamo a qualcosa di più strisciante e infiltrante. Il bambino disabile rimane ancora un soggetto “fuori norma”, un caso da certificare e da gestire, un elemento da considerare al momento della formazione delle classi. Nella migliore delle ipotesi è un soggetto la cui integrazione e socializzazione con altri bambini va stimolata e mediata. Perché? Perché la sua peculiarità non è quella di essere bambino – un bambino che deve apprendere con metodi e tempi suoi – ma di essere un disabile, un diverso. Gli si nega il sacrosanto diritto all’infanzia. Il diritto all’infanzia fatta di giochi e di formazione, di fantasmi buoni e cattivi, di gioie ma anche di pianti. Di ginocchia sbucciate, occhiali rotti, grembiulini stracciati, ma anche di brutti voti e di rimproveri della maestra.

Il resto di danno lo causa un diffuso e peloso paternalismo (o maternalismo?): l’educazione non deve comportare frustrazioni o delusioni, nemmeno momentanee per nessuno! Men che meno se il bambino ha difficoltà. Ecco allora che non è importante se impara (e si impara solo sbagliando), se apprende, se memorizza prima e padroneggia poi delle nozioni e dei processi logici. È importante che stia con gli altri o comunque che non crei attriti nel – parola magica – gruppo-classe. È meglio promuoverlo, anche se non ha imparato nulla, non rimproverarlo perché è in una situazione perennemente critica, non appioppargli un brutto voto perché comunque quello che fa è sempre troppo.

Lo ritroveremo a venticinque anni, al momento di inserirlo al lavoro, che, oltre ad essere disabile, sarà anche un irrecuperabile zuccone senza effettivi spazi di integrazione reale, senza opportunità di crescita professionale.

Lo troveremo magari a riempirsi la bocca di concetti quali “autonomia personale” o “vita indipendente” addossando la colpa per la sua mancata realizzazione all’indisponibilità di contributi pubblici. Ma sotto sotto continuerà a chiedere alla madre di scegliere per lui il colore della sua T-shirt, o a implorare il padre di organizzargli le ferie, o affidarsi completamente all’assistente per qualsiasi decisione quotidiana. Per fortuna non è sempre così e abbiamo esempi, molti, in cui le personalità si strutturano in modo saldo, forte e talvolta addirittura affascinante. Il merito è, soprattutto, della famiglia che vuole che quel bambino divenga un uomo, che quella bambina sia una donna, in grado di decidere, gestirsi o gestire chi li deve, se necessario, aiutare. E allora tratta il bambino disabile da bambino, l’adolescente disabile da adolescente, e l’adulto disabile da adulto e non da eterno ragazzo. È possibile, è faticoso, ma ne vale la pena. Senza infingimenti, senza scappatoie, senza scorciatoie e con qualche amorevole scapaccione.