La gamba più lunga (racconto natalizio)

Ho una gamba più lunga e una volta ho accoppato un tizio.

Gli anni miei sono abbastanza da essermi preso la polio. Non c’era il cazzo di vaccino allora. Gliela farei vedere a certe mammette moderne con la paranoia della puntura la mia gambetta ritorta e bluastra. Oddio … per la verità preferirei mostrare loro la gamba di mezzo, ma ormai mi serve a poco. A malapena per pisciare e con fin troppa frequenza. Il medico ha detto che c’ho la prostata come una pesca. Senza cancheri al momento. Ma siccome tutto è probabile ogni anno dovrei ripetere le analisi e farmi infilare un dito oleoso nel culo.

La mia gambetta mi ha sempre riservato delle soddisfazioni. Anche a mia madre e pure al nostro medico che sospirava grave: “Poteva andare peggio. Uh se se se … poteva andargli mooolto peggio.” E via col rosario delle più malridotte larve umane del circondario. “Vero, dottore. Almeno capisce e può studiare.” Povera donna. Imbecille fin da giovane: non sapeva né cucinare né parlare a proposito.

Di provare al mondo che la polio non aveva leso la mia intelligenza non ne ho mai avuto voglia. Non sui banchi di scuola almeno. Trafficavo, vendevo, compravo, scambiavo. Gestivo i giri più balordi di tutti gli sgherri della mia età. Ero un boss riconosciuto e anche un po’ temuto. Non mi sono mai tirato indietro dalle risse. Quella gran troia della natura è stata stronza con la mia gamba ma fin troppo generosa con le braccia e con i riflessi. Il resto ce l’ho sempre messo io colpendo per primo, il più duro possibile. In modo da fare male.

E per un po’ sono pure piaciuto alle donne. Le femmine – si sa – sono attirate dai casi umani, da quelli strani. Poi magari ti schifano, ma all’inizio hai gioco facile: bearsi di questi occhioni innamorati persi, fingere di credere alle loro balle che sei il migliore del mondo. A me bastava per quello che mi interessava davvero. Oh sì … dentro il capanno degli attrezzi, nel magazzino dei vicini, nei sottoscala mi sono divertito assai. E dietro la siepe del cimitero c’era un gregge di preservativi usati. Poi anche da me è arrivata quella che sembrava più pulita delle altre, quella che non si accontenta di essere bona, ma si arroga anche il ruolo di persona attenta, sensibile, acuta. Impegnata a fare del bene a me e alla relazione (che merda di parola). Solo lei sapeva cos’era buono per me, oltre che per il mondo intero. Alla fine peggiore e più falsa di chiunque altra. Com’è venuta se n’è andata: per il bene di entrambi, ma soprattutto per il mio, ovvio. Non so che fine abbia fatto. Spero – e prego Iddio – brutta.

Non è che l’abbia mai pregato molto quello che sta lassù. La Chiesa non mi ha mai voluto bene. Il buon Don Egidio mi accarezzava la nuca e sussurrava: “Tu sei un unto dal Signore” Mi rassicurava con la benedizione della mia disgrazia. Sento ancora il suo alito fetente. Ho continuato a bazzicare attorno alla canonica e al campo sportivo fino alla prima giovinezza.

Finché una sera quel prete non mi cacciò. Ero davvero ubriaco e per dare spettacolo stavo su una gamba sola in cima al muretto della chiesa imitando a gran voce un improbabile predicatore: “E tuonando – sono Gesucrisssto! – spianava le montagne, prosciugava i mari e spurgava i pozzi neri!”

Tanto è bastato per allontanarmi dalla chiesa e dalla fede.

Mia madre morì poco dopo. Era un pezzo che stava di merda. Una sera a letto diventò paonazza tutto in un colpo ed emise un fiotto denso di sangue scuro dalla bocca. Come quando mangi in fretta qualcosa di bollente, non riesci a tenerlo fra lingua e palato e cacci fuori il bolo mezzo masticato perché si raffreddi. L’ambulanza la caricò ma in ospedale ci arrivò cadavere. Al funerale non c’era quasi nessuno e mi ci misi io a fare il quarto che porta la bara. Avete idea di come proceda un feretro sulla spalla di un zoppo? Mamma sembrava sulle montagne russe. Mi venne da ridere. Quello in fondo, vicino al confessionale, forse era mio padre. Mai visto prima né dopo, ma dai lineamenti avrei giurato che lo sperma bastardo fosse il suo. Don Egidio non mi guardò nemmeno in faccia. Meglio così: risparmiato l’obolo funebre, lo spesi per qualcosa di meglio: il pomeriggio stesso mi spurgai la tristezza con la nuova arrivata. 20 mila lire di allora.

Ho girato l’Italia e il mondo incrociando i lavori peggiori. Pulizie, rifiuti tossici, mattatoi, facchino, a raccogliere pomodori, mele, pulire il culo ai vecchi… Ho perso il sudore e l’anima per qualche soldo. Tanti ne ho presi, tanti ne ho spesi. Non mi sono mai fatto una famiglia. Quando ho avuto voglia di una femmina me la sono pagata o mi sono arrangiato da me. Ho scoperto che costa meno, in tutti i sensi. Si risparmia e comunque non ti rimane nulla lo stesso. Non ho mai chiesto niente a nessuno e ho avuto ancora di meno.

A pensarci, solo una volta ho provato a chiedere l’invalidità. “La danno a tutti!” mi ripetevano “Chiedila! Se non la danno a te …” Quattro lire non mi avrebbero fatto schifo.

I medici mi sono andati sul culo come li ho visti. Domande, domande, domande … senza nemmeno guardami la gamba. “Lei, dunque, come esito della poliomielite ha una gamba più corta.”

No, dottore, io ho una gamba più lunga. È quello il problema.” Spuntai il minimo: niente pensione.

All’alba dei 60 anni continuo a vivere di espedienti. Si dice così, no? E cazzeggio. Mi piace osservare le persone, da vicino e da lontano e attribuire loro un voto su quanto probabilmente sono stronze. Conta come sono vestite, come camminano, i commenti che fanno per strada o quello che comprano. O come si rivolgono a chi le accompagna. O gli urletti davanti alle vetrine o alle bancarelle dei grotteschi mercatini di Natale. Ai mercatini c’è una concentrazione incredibile di stronzette. Ne sono attratte come le mosche da una merda di vacca. Comprano le peggiori minchiate, sculettando via con peti discreti di soddisfazione.

È solo un passatempo il mio, ma quand’è sera di questo popolo felice e normale si salva ben poco. È solo un passatempo di un povero “senza-fissa-dimora”. Sono in quella categoria da un paio d’anni: come prevedibile ho perso anche il buco dove vivevo. Non è così male, però. Conservo la mia roba nella stanza di uno stabile dismesso. Ci dormo. Per il resto mangio alla Caritas e due volte alla settimana posso farmi la doccia calda e anche usare la lavatrice. Poi c’è un’altra associazione che aiuta quelli come me. Li dovreste vedere: sembriamo la loro benedizione, l’occasione imperdibile per riscattarsi da chissà che cosa. Sempre pronti a offrire mille attenzioni all’ultimo arrivato, al più disgraziato. Quando arriva uno nuovo sono cazzi. Difficile che ti caghino.

Per i più ripuliti di noi – quelli che non spaventano le persone – hanno persino inventato un modo di racimolare offerte in occasione del Natale. Ognuno ha un grosso sacco tipo Babbo Natale. Dentro dei lavoretti inguardabili confezionati dagli handicappati o dalle vecchie dell’ospizio. Ci siamo divisi la città per quartiere: andiamo casa per casa. Suoniamo il campanello ci presentiamo con la formula che ci hanno insegnato e fatto ripetere più volte in coro e tiriamo fuori la mercanzia. Il 50 va all’associazione, l’altra metà a noi. Io mi imbosco ben più della metà ma credo lo facciano anche gli altri. È un buon affare per qualche giorno. A me è stato assegnato il mio vecchio quartiere. Non credo che qualcuno mi riconosca. Se ne sono andati quasi tutti e sono arrivate nuove famigliole felici.

Ma tu guarda … le luci della canonica sono accese ed è Don Egidio quello che mi apre. (Carlo Giacobini)